Tratto dal Convegno di studi "Il giorno della memoria", tenutosi a Pisa, il 13 ottobre 2000 

Carla Forti

E. Collotti (a c. di), Razza e Fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943), Carocci-Regione Toscana 1999. Vol. I, Saggi, pp. 602; vol. II, Documenti, pp. 199.

Questo libro a più voci espone i risultati di una vasta ricerca compiuta da sette giovani studiosi (F. Balloni, C. Bencini, F. Cavarocchi, S. Duranti, V. Galimi, A. Minerbi, V. Piattelli). L’opera ha un impianto molto organico, pur occupandosi ogni autore di aspetti diversi. Consta di un volume di saggi e uno di documenti. Quest’ultimo contiene una ristretta ma significativa selezione del materiale su cui è stata condotta la ricerca e un’ampia bibliografia utilmente divisa in quattro sezioni. A Enzo Collotti, coordinatore della ricerca, si devono l’introduzione generale e la presentazione di uno dei documenti (il diario dell’ebreo fiorentino Vittorio Pisa).

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La prima parte (Aspetti della presenza ebraica in Toscana) è dedicata infatti alla Comunità ebraica fiorentina e a "Israel", il più importante settimanale ebraico italiano, che aveva sede a Firenze e uscì fino al 1938.

Percorsi tormentati e lacerazioni derivano dal fatto che essere buoni ebrei e buoni italiani - come gli ebrei italiani erano sempre stati, distinguendosi per il loro patriottismo sia nel Risorgimento che nella Prima Guerra Mondiale - diventa difficile nell’Italia fascista che ha fatto del cattolicesimo la religione di stato e che nel 1931 impone l’adozione del testo unico di stato nella scuola pubblica della riforma gentiliana e anche nelle scuole ebraiche. Difficile anche se si è fascisti, come prevalentemente è, fino alle leggi razziali, la borghesia ebraica fiorentina. Ancora più difficile se si è sionisti, come è la redazione di "Israel" (fondato nel 1916 da Dante Lattes e Alfonso Pacifici).

All’interno del sionismo italiano "Israel" mantenne sempre (come mostra Valentina Piattelli nel saggio che apre il volume, "Israel" e il sionismo in Toscana negli anni Trenta) un’equilibrata posizione di centro fra sinistra socialista e destra revisionista; cercò anche di "legittimare la sua stessa esistenza all’interno del regime fascista suggerendo un possibile utilizzo del sionismo e dell’ebraismo italiano da parte del regime, come strumento di penetrazione nel Vicino Oriente e in funzione anti-inglese"; e aderì entusiasticamente al colonialismo italiano in Africa Orientale. Tutto ciò non valse a risparmiargli (e a risparmiare agli ebrei in genere) l’accusa di doppia appartenenza e scarsa italianità da parte della stampa fascista. Ma già prima che la prefettura di Firenze ordini la chiusura di "Israel", sono i fascistissimi esponenti del "Comitato degli italiani di religione ebraica" a devastarne le sede, miopemente persuasi, o pateticamente illusi, che solo il sionismo abbia provocato la svolta antisemita del regime.

Coltivare e alimentare illusioni non è però un’esclusiva degli ebrei anti-sionisti, è atteggiamento comune a tutti gli ambienti ebraici studiati in questo libro (e in altri che lo hanno preceduto). Non solo nella fase preparatoria della svolta antisemita (basta vedere, p. 65, come "Israel" commenta la Nota diplomatica n. 14), ma anche nei mesi che seguono l’uscita delle leggi razziali. E tutto ciò nonostante che già nel 1933 "Israel" si fosse fatto qualche illusione circa l’effettivo pericolo rappresentato dal nazismo al potere, salvo poi arrendersi all’evidenza e passare a farsi promotore dell’assistenza ai profughi ebrei dalla Germania (Piattelli, La percezione del nazismo e l’assistenza ai profughi dalla Germania attraverso le pagine di "Israel").

Il tema dei profughi dalla Germania che hanno cercato in Toscana un loro "rifugio precario", per usare l’espressione di Klaus Voigt, e che furono i primi a subire l’internamento, è direttamente o indirettamente presente in quasi tutti i saggi del volume (anche se in questa sede non si affronta un problema di cui Collotti segnala nell’introduzione l’interesse, cioè che tipo di rapporti si sia, o non si sia, stabilito fra la cultura fiorentina e toscana dell’epoca e questo tipo di emigrazione tedesca, costituita in buona parte di intellettuali e artisti).

Iniziata in anni di rapporti ancora tesi fra l’Italia fascista e la Germania nazista, la persecuzione e l’emigrazione degli ebrei tedeschi è per quelli italiani - ancora cittadini nella pienezza dei diritti per quanto si può esserlo in una dittatura - un banco di prova: prova di solidarietà a cui essi non si sottraggono, ma anche occasione in cui si rivela, con la preoccupazione che l’afflusso di profughi attizzi l’antisemitismo, l’ansia sul proprio futuro, rimossa nelle dichiarazioni ufficiali che vantano la benevolenza del regime.

Ansia per il futuro e impreparazione al colpo che il futuro ha in serbo per loro convivono dunque contraddittoriamente negli ebrei italiani. O meglio: in quegli ebrei benpensanti o fascisti convinti che costituiscono il gruppo dirigente delle comunità in generale e di quella fiorentina in particolare. Nell’anno da cui prende le mosse l’ampio saggio di Alessandra Minerbi su La Comunità ebraica di Firenze (1931-1943) diventa infatti operante la nuova organizzazione dell’ebraismo italiano voluta dal regime con la creazione dell’U.C.I.I. e con l’accorpamento e la subordinazione gerarchica all’U.C.I.I. delle comunità locali, da sempre abituate all’indipendenza. Il gruppo dirigente delle comunità, che era sempre stato espresso dalla èlite più abbiente ed era sempre stato moderato, ora non poteva che essere scelto secondo criteri di affidabilità nei confronti del regime. Ed è inevitabilmente il gruppo dirigente a trovarsi in primo piano in una ricerca come questa, che mette a fuoco l’ebraismo organizzato sui cui archivi e organi di stampa si fonda. Non può comparirvi, per la sua stessa natura, l’ebraismo antifascista; o, se si preferisce, la componente antifascista di coloro che il fascismo catalogò come appartenenti alla "razza ebraica". Costoro infatti, laici e lontani dalla vita dell’ebraismo organizzato, si presentavano e vedevano se stessi semplicemente come antifascisti, non già come "ebrei antifascisti". Qui dunque essi sono presenti solo nella misura in cui la stampa fascista ne denuncia l’attività in chiave antisemita (come accade nel ‘34 con l’arresto dei militanti di Giustizia e Libertà, tutti ebrei) e nella misura in cui l’ebraismo organizzato si sforza inutilmente di neutralizzare la strumentalizzazione.

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